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Frosinone, Vibo Valentia, Genova, Alessandria; non c’è impianto eolico o fotovoltaico che non sia passato attraverso contestazioni roventi.
Ora, un nuovo approccio alla progettazione promette il cessare delle ostilità. Scopriamo di più.

Il fenomeno NYMB

Impianti fuori scala. Rumorosi, deturpanti, poco o per nulla inseriti nel territorio. Abbiamo sentito queste critiche mille volte e mille volte le abbiamo ignorate. In fondo, non possiamo permettere  che il progresso si fermi per semplice ignoranza, giusto?

Sbagliato.

Andando ad approfondire, scopriamo che in realtà il tema è molto più complesso. Partiamo proprio dai “cittadini indignati”.

Vi sarà sicuramente capitato di imbattervi nell’espressione americana NYMB, ovvero Not In My Backyard. Il termine descrive l’atteggiamento di chi considera l’iniziativa di turno lodevole, ma, di fatto, si oppone alla realizzazione sul proprio territorio.

Ebbene, bollare queste persone come egoiste, poco informate o insensibili al cambiamento climatico è limitante. Diversi studi su casi passati hanno dimostrano come siano in realtà i temi di giustizia sociale ed equità ambientale a infiammare i dibattiti.

Tra i motivi di astio più citati, la ridotta distribuzione di vantaggi economici, concentrati nelle mani di un’élite ristretta di operatori, e la paura di una sorta di “colonizzazione” delle aree rurali, a discapito della popolazione anziana e meno istruita delle campagne. 

Non c’è da stupirsi: il modello in cui grandi flussi finanziari si impongono sulle realtà locali, viene inevitabilmente vissuto dalle comunità come una componente estranea, che produce tensioni e contrapposizioni

Altro fattore da considerare, quello dell’assenza di un processo decisionale condiviso.

Incrociando i dati, è emersa una correlazione tra polemiche e mancato coinvolgimento della comunità. Nei casi di maggior contestazione, infatti, la popolazione era stata convocata per semplici (quanto inutili) riunioni informative, organizzate – tra l’altro – a cose fatte. 

Che insegnamento trarre?

Quarant’anni di attività e studi ci hanno permesso di comprendere una lezione importante, legata alla sostenibilità nella sua accezione più ampia. In assenza di equilibrio tra fattori sociali, economici e ambientali, anche l’iniziativa più lodevole si rivela, a conti fatti, fallace.  Per poter andare avanti, è necessario cambiare paradigma.

La nascita di una nuova ideologia

L’accettazione sociale è indissolubilmente legata ad una nuova filosofia di pensiero, in cui la variabile territorio assume nuova centralità.

È l’impianto a doversi adattare al territorio, non viceversa.

Assistiamo alla nascita di un nuova ideologia, che privilegia una tecnologia adeguata al luogo, portatrice di benefici e valore aggiunto per le comunità ospitanti.

Un modello che non si limita, come in passato, al binomio “massima efficienza / minimi costi”  ma tiene conto del particolare mix di impianti rinnovabili presenti, della loro riproducibilità e della loro intrinseca qualità paesaggistica.

Un sistema che incentiva  l’autoconsumo locale e la filiera corta in ambito energetico, con una più stretta vicinanza tra produzione e consumo.

Sulla base di questo impianto ideologico nascono, a partire dal 2000, le prime forma di comunità energetica. Risale infatti a questi anni il saggio di Walker e Devine-Wright, che definisce le Comunità Energetiche come “un progetto energetico gestito da e a beneficio di una popolazione locale”.

Grazie alle comunità energetiche si aprono nuove forme di partecipazione per i cittadini. Non più semplici consumatori, destinatari di decisioni prese ad alti livelli, ma parte attiva di un processo teso a promuovere progetti di sviluppo locale sostenibile e durevole.